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72 capitolo iv.


mongolo, al quale si arriva per tre scaglioni. Si ascende al centro dell’Asia come si ascende ad un tempio: tre soglie e tre ripiani. In basso, alla nostra sinistra, si aprivano le immense vallate dello Shan-si, imbevute d’azzurro e di luce.

In certi passaggi v’era appena lo spazio per l’automobile, ed occorrevano cautele infinite. Bisognava dare qua e là un colpo di piccone, misurare con l’occhio, e spesso tentare audacemente l’avanzata vigilando i mozzi delle ruote, pronto il guidatore a inchiodare la macchina sotto la potente stretta dei freni. Ad un villaggio, Tu-mu-go, a 45 chilometri da Cha-tau-chung, ci trovammo quasi inaspettatamente fuori dal terreno montuoso; una pianura verde c’invitava alla corsa. Abbiamo accettato l’invito. “Fermi!„

Ci passa la stanchezza come per incanto. In un minuto i coolies sono messi in disparte ed affidati al comando di Pietro, e le tre bestie staccate. Arrotoliamo febbrilmente le corde ai portafanali, sciogliamo la bandiera. Un colpo di manovella, e il motore rugge. Balziamo sulla macchina, e via!

Via, per il sentiero tortuoso e ineguale, senza curarci dei salti, degli sbalzi, degli urti, pur di correre. L’automobile non è che alla seconda velocità, ma ci par di volare. Ci si presentano delle vaste pozze formate dalla pioggia. Avanti! Vi precipitiamo dentro, le solchiamo sollevando una tempesta d’acqua e di fango; l’ondata rigurgita nel vano del telaio e ci bagna. Ridiamo. Parliamo ad alta voce, presi da una strana esuberanza; è una reazione contro i lunghi silenzi e le avvilenti lentezze del cammino trascorso. E c’è anche in noi una gioia nuova, che viene dalla soddisfazione intensa e inesprimibile del fare una cosa che non fu mai fatta. È la voluttà d’una conquista, l’ebbrezza di un trionfo, e una sorpresa insieme, come un trasognamento per la singolarità fantastica di questa corsa in questo paese. Vediamo dei tetti di pagoda fra gli alberi. Ci pare d’interrompere una quiete millenaria, d’essere i primi a gettare fuggendo un segnale di risveglio ad un gran sonno. Sentiamo in noi l’orgoglio d’una civiltà e d’una razza, sentiamo di rappresentare qualche cosa di più di noi stessi: con