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98 capitolo v.


delle mura di Hsin-wa-fu ve n’è andata tanta che ha finito quasi col seppellirle. Di esse emerge la merlatura.

In mezz’ora abbiamo avuto ragione del passo di Yu-pao-tung, incassatura scoscesa, dall’apparenza feroce ma in fondo abbastanza ospitale, la quale non ci ha opposto altre difficoltà che una pendenza del quaranta per cento, e la presenza di alcuni macigni, che si sono lasciati docilmente rotolar via per sgombrare il passaggio. In quella piccola gola è rimasto, isolato, sollevato, e perciò rispettato, un pezzo di strada pavimentata a larghe pietre, pietre che non sono della regione e che vi debbono essere state trasportate dal monte Shi-shan (al di là di Kalgan). È una sorprendente reliquia dell’antica civiltà cinese. Vi erano dunque delle vere strade, una volta, e belle, e comode. Cosa era mai in quei tempi lontani la Cina? Quali traffici, quale fiume di ricchezza scorreva per valli e per pianure, sopra vie mirabili e ponti superbi, verso Pechino? Quanti secoli sono passati?

Davanti ad un piccolo e grazioso tempio, contornato d’alberi, ci siamo fermati a preparare il motore e a mettere in ordine ogni cosa per andarcene a Kalgan senz’aiuti esteriori. Sono sopraggiunti dei mulattieri, dei contadini, dei ragazzi, e proclamata dai coolies la notizia dell’evento si è sparsa, è penetrata anche nel tempio. Un giovane bonzo è comparso in cima alla gradinata che conduce nel recinto sacro, ha guardato, ed è sparito per ritornare poco dopo sorreggendo e guidando un vecchio bonzo dal capo reclinato e tremulo. Ci siamo accorti che il vecchio era cieco. Il giovane gli raccontava tutto ciò che accadeva. Ed il cieco assistè così, senza vedere, alla portentosa fuga del carro magico attraverso quei luoghi che egli ben conosceva, attraverso la luce e i ricordi della sua giovinezza.

Ci parve quasi un simbolo quella cecità. Il simbolo dell’anima cinese. Non era forse intorno a noi tutto un popolo che viveva solo del passato, e che assisteva senza vedere al poderoso irrompere d’un presente a lui ignoto? Che cosa lasciavamo dietro di noi, fra quelle genti, se non l’impressione d’una violenza misteriosa?