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130 capitolo vi.


— Penso che traverseremo il deserto di Gobi. Ebbene, non ci posso credere!

In quel momento pensavo la stessa cosa. Era in noi un miscuglio inesplicabile di fiducia, di risolutezza, di volontà, e di incredulità vaga. Era un po’ il sentimento di chi, deciso a vincere si gettasse armato ad incontrare il nemico nella nebbia. Pensando alla natura del terreno, alla stabilità della stagione, alle virtù della macchina, e alle nostre forze, ci sentivamo sicuri; ma quando vedevamo con la fantasia il punto da noi occupato nel mondo e chiamavamo quelle terre con i loro nomi, allora la nostra certezza vacillava. Ci pareva che il problema uscisse dalla semplice tecnica, che vi fossero degli elementi incalcolabili; subivamo il misterioso e pauroso fascino dell’Asia. Il deserto si personificava nella nostra mente: quel terribile avversario dell’uomo, quel massacratore di carovane, quella temuta divinità della morte, si sarebbe difeso: pensavamo a lui come ad una indomita potenza. La parola stessa: Deserto — c’imponeva.

Vedevamo qualche yurta di tanto in tanto, bassa e rotonda, simile ad un alveare. Quella piccola cupola grigia coperta di feltro è l’abitazione dei nomadi dell’Asia, dai kirghisi ai turcomanni, identica sulle rive dell’Aral e su quelle dell’Irtysch e del Tola, e basterebbe da sola a provare la parentela di tutte le razze del centro asiatico, la loro discendenza dal gran ceppo mongolo. Io vidi delle yurte anche nel campo russo a Mukden.

Il rombo dell’automobile arrivava a quelle capanne, degli uomini sbucavano fuori precipitosamente, guardavano facendo grandi gesti di stupore. Qualche volta balzavano in groppa a dei cavalli pascolanti vicino a loro, e c’inseguivano ostinatamente, agitando le lunghe aste da mandriano come fossero lancie, e gridando.

Saranno state le otto del mattino quando siamo arrivati in vicinanza di un gruppo di yurte, un vero piccolo accampamento. Della gente era in vedetta sopra una specie d’impalcatura ed ha dato l’allarmi. È seguita una confusione d’uomini che correvano