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la città del deserto 183


nerale tartaro, il Tu Tung di Urga, comandante la guarnigione cinese, si è chiuso in una fortezza quadrata, difesa da parapetti di terra rafforzati con travi, coronati da merli e tagliati da feritoie, con posti di vedetta agli angoli. Cinesi e Russi si sono insediati come in paese di conquista. Chi è il vero padrone?

Non certo quel divinizzato sovrano del popolo mongolo che è il gran Lama, il Buddha vivente, semi-recluso in una Lamaseria poco discosta — alla quale appartengono i bianchi edifizi che si vedono da lontano arrivando. Buddha si compiace di vivere di vita umana entrando nel corpo di tre uomini — tre soli al mondo. Uno di essi è il Dalai Lama del Tibet; il secondo quello di Urga; il terzo è a Pechino, capo di 1200 Lama del gran tempio di Yung-ho-kung. Benché tutti e tre posseggano l’anima di Buddha, esiste fra loro una graduazione sensibile di valore. Quello del Tibet è più stimato, e quello di Pechino lo è il meno. La differenza consiste in una maggiore o minore potenza di benedizione, che somiglia molto alla baraka degli arabi; sono venerati non a seconda di quel che valgono ma di quel che giovano. Quando due anni or sono il Dalai Lama del Tibet fuggì da Lhasa, minacciata dalla marcia inglese, e si rifugiò ad Urga, i buoni mongoli piantarono il loro dio per quello tibetano, molto più efficace. E si vide allora il raro spettacolo d’una ostilità feroce tra un Buddha e l’altro.

Intorno a quella disgraziata divinità di Urga s’annodano i fili dell’intreccio politico. Un uomo intelligente, energico ed ambizioso, alla testa del popolo mongolo potrebbe rendersi pericoloso alla sovranità cinese, e forse perciò avviene questo fatto curioso: che il dio vivente non è mai un uomo: è un fanciullo. Lasciarsi adorare è un compito facile che anche un bambino può disimpegnare. Quell’adolescente non arriva alla maturità. Quando sta per divenire un uomo, muore. Muore improvvisamente, misteriosamente. Ma egli ha già nominato il suo successore, ed un altro fanciullo monta sul tragico altare. È uno dei più costanti miracoli della divinità quella morte repentina; l’anima del dio non