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212 capitolo x.


era al nord, e loro non conoscevano modo migliore di andarvi che dirigendosi da quella parte.

Diffidavamo dei sentieri abbandonati; scendevamo spesso dalla vettura ad osservare se le traccie d’un transito erano recenti o antiche; preferivamo il terreno vergine ad un sentiero abbandonato, perchè l’abbandono era sempre giustificato da qualche grave ragione. L’abbandono significava pericolo. Esplorando a piedi trovavamo infatti che più avanti il terreno si era allagato, o impantanato, oppure che l’acqua aveva scavato qualche largo crepaccio. Avveniva talvolta che trovavamo improvvisamente i segni freschi del transito interrotti, e allora investigando scorgevamo sull’erba che essi deviavano, e deviavamo anche noi. Profittavamo così dell’esperienza dei nomadi e dei conduttori di carovane. Della gente passata da giorni, e che si trovava allora chi sa quanto lontano, da noi, ci serviva da guida come se fosse lì e ci precedesse.

Alle due del pomeriggio sboccavamo in una pianura verde di cespugli e di alte erbe; non osservammo al primo momento che era tutta una vegetazione palustre. Calcolavamo che il fiume Chara-gol non dovesse essere lontano. Avanti a noi si levavano le prime vette degli Argal. Ad un certo punto ci accorgemmo che la strada sembrava abbandonata. Avevamo avuto appena il tempo di scambiarci una rapida parola, che l’automobile affondava e si fermava di colpo. Era entrata velocemente in un pantano torboso, la cui crosta, essiccata dal sole, aveva tutte le apparenze della solidità. Questa volta la macchina s’era inclinata a destra.

Saltati a terra, constatammo uno strano fenomeno, che ci tolse immediatamente tutto il nostro coraggio. Il suolo ondeggiava sotto i nostri passi. Era come se camminassimo sopra una distesa di pezzi di sughero galleggianti nell’acqua. La crosta cedeva senza rompersi; si abbassava alla pressione del piede, per rialzarsi appena il piede la lasciava. Ad ogni passo sentivamo un propagarsi d’onde. Il terreno faceva l’effetto d’una vasta distesa