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sulla via di kiakhta 213


di caucciù. Era evidente che sotto a quella debole superfice vi erano delle profondità liquide. Vi pensammo come ad un abisso di fango. Volemmo sondare il suolo, e v’immergemmo il manico della pala: il lungo bastone scivolò giù come in una guaina. Ne provammo un senso di terrore. Comprendemmo che quella massa di mota avrebbe inghiottito l’automobile se non riuscivamo a salvarla sùbito.

Ci guardammo intorno. Eravamo soli. La pianura, silenziosa Fra le alte sabbie della Mongolia settentrionale in vicinanza di Kiakhta. e calda, era deserta. Cominciammo a lavorare, ma con l’angoscia di fare cosa inutile. Compivamo un dovere; non volevamo cedere senza lotta; ci preparavamo a contendere con tutte le forze la nostra macchina alla voragine di melma, ma senza speranza di vincere, con l’animo di chi contende alla morte la vita d’una persona cara e condannata. Lavoravamo per ingannare noi stessi, per darci l’illusione di essere utili. Sapevamo bene che non avremmo potuto far nulla, noi tre soli. Non v’erano città vicine, dove correre a domandare aiuto, a cercare operai, macchine, argani.