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un ponte che crolla 291


avevano qualche cosa dell’antica nave. Si comprendeva che quel ponte era stato rifatto col legname d’un altro crollato. Mancava d’ogni traccia di parapetto, era un po’ sbilenco, mostrava le irregolarità e le trascuratezze del provvisorio. Ma avevamo già attraversato molti ponti provvisori — che non ci erano sembrati migliori. Esso scavalcava un torrentello, profondo tre o quattro metri, i cui ciglioni erano così irti di cespugli e di arbusti che pareva si tendessero delle piante per ricongiungersi.

Ettore rallentò la corsa, e sostò qualche secondo per guardare. Di fronte ad ogni ostacolo facevamo queste brevi fermate d’osservazione. Ispezionavamo senza muoverci dall’automobile, studiavamo rapidamente il passo, decidevamo in un baleno. Avevamo fatto l’occhio e la mente ai mille problemi della strada, tanto simili e tanto diversi. Li giudicavamo all’istante, per analogia. Applicavamo a colpo sicuro dei metodi insegnati dalla pratica, sapevamo dove occorreva slancio e dove occorreva cautela, conoscevamo per intuizione i punti sui quali le ruote potevano passare, indovinavamo la parte più resistente d’una tavola come la profondità d’un’acqua, la durezza d’un fondo melmoso. Lì avemmo un attimo di esitazione, un fugace presentimento del pericolo. Ma non fu che un attimo. Ogni dubbio non era completamente dissipato, ma noi avevamo un curioso modo di ragionare avanti alle difficoltà; ci dicevamo: Proviamo!

Il gendarme era saltato a terra. Egli non aveva la nostra esperienza in fatto di ponti vecchi, e giudicava con un vergine buon senso. Reputava necessario osservare da vicino, scendere nel torrente, guardare le travi. Ci diceva:

— Aspettate! Aspettate!

E si preparava alla ricognizione.

Borghese ordinò ad Ettore:

— Vai avanti! piano!

L’automobile s’inoltrò sul tavolato che tremò, scricchiolò un poco, oscillò come tanti altri avevano fatto sotto il peso della nostra macchina. Non eravamo gran che allarmati. Ma durante quelle