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352 capitolo xvi.


Quanta gente diversa avevamo visto lavorare all’automobile, spingerla, tirarla, alzarla! Quante lingue avevano espresse le stesse idee nell’ansimo della fatica, quante volontà s’erano unite alla nostra! Il gruppo di quei soldati russi dai grossi caratteristici cappotti a cappuccio come tonache di frati, dai tradizionali berretti a piatto, dagli alti e rozzi stivali, con le cartucciere alla cintola, la lunga sciabola al fianco, tutti intenti intorno a quella gran macchina grigia, pronti al comando del gigantesco sergente, attaccati ai raggi delle ruote, quel gruppo aveva l’apparenza d’un quadro di guerra. Faceva pensare ad un qualche episodio di battaglia, al salvataggio d’uno strano cannone.

Attraversammo senza altri incidenti la vasta pianura, ed entrammo in un immenso ondulare di collinette, ora nude, ora boscose. A mano a mano che avanzavamo la strada diventava meno praticabile: tutta buche, solchi, fossi. Essa era abbandonata dalle teleghe e dai carri, che s’erano ricercati altri passaggi, e avevano formato capricciosi e numerosi sentieri scavati a zig-zag attraverso i prati e le boscaglie. Questo significava che era meglio passar per tutto piuttosto che sulla via. I ponti però erano sempre buoni, e alle loro imboccature tutti i sentieri, serpeggiando, correvano a riunirsi per attraversare insieme e separarsi al di là. L’antica strada maestra si è coperta di erbe e di sterpi, e sarebbe quasi sparita, divenuta invisibile, se non si vedessero ancora le tracce dei suoi fossati, e se lungo i suoi bordi non sorgessero sempre, da versta a versta, i caratteristici pali dipinti a fascie spirali bianche, rosse, e nere, e portanti la scritta delle distanze dalle stazioni postali: indicazioni solitarie che nessuno più legge. Quei pali ci guidavano. Ci dicevamo sempre:

— Dov’è la “versta„?

E se non la trovavamo tornavamo indietro a cercarla. Abbiamo percorso stradicciuole campestri, strisciando fra gli sterpi, lasciando i solchi delle ruote sull’erba. Passavamo dall’una all’altra, per quell’illusione continua dell’uomo la quale fa credere che il posto dove non si è sia sempre migliore. L’invidia probabilmente nasce da