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tomsk la dotta 367


patria i furori della guerra, i commerci erano sospesi, tutti i negozi e le case barricati, le grandi città parevano morte. E tutto questo, laggiù, non per un trionfo d’ideali, per una lotta politica; non era rivoluzione quella; era un fenomeno molto meno complesso; si trattava di questo fatto: che centinaia di migliaia d’uomini avevano alla guerra imparato ad ammazzare e a distruggere, e, dopo le battaglie, seguitavano.

Alla sera, tardi, tornando all’albergo, nella via deserta, illuminata dal pallore rosato della notte, incontrammo dei reggimenti che venivano dal campo. I soldati cantavano in coro marciando, e nelle canne dei fucili portavano legati mazzi di fiori campestri.


Lasciammo Tomsk alle quattro del mattino del giorno dopo, 12 Luglio, con un tempo sempre minaccioso. Ci precedevano, al galoppo, due cosacchi mandati dal governatore ad indicarci la strada per uscire dalla città. Un gruppo di velocipedisti e motociclisti ci scortava.

In quel momento non speravamo più al ritorno del sole. Arrivare ad Omsk, lontana 960 chilometri, non importa in quanto tempo, ci sembrava un ideale quasi irraggiungibile. Dal colonnello De Nolcken ci eravamo fatti indicare i principali villaggi sulla nostra strada nei quali avremmo potuto far tappa. Calcolavamo di non poter percorrere più di 150 chilometri al giorno. Chi avrebbe immaginato che un sole, dapprima timido, pallido, esitante, uno di quei soli che tornano a nascondersi subito appena apparsi, ci avrebbe accompagnati al principio, per farsi poi più ardito, ardente fino a divenire torrido, fino a prosciugare il fango, indurire la strada, prepararci un sicuro terreno per la nostra corsa? No, alla partenza aspettavamo la pioggia.

Correvamo per le vie deserte di Tomsk appresso ai nostri cosacchi. Volti assonnati apparivano dietro ai vetri, attirati dall’insolito rumore dei cavalli al galoppo, del motore, dei campanelli.

Il singolare corteo lasciò la città, e andò a fermarsi, pochi