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368 capitolo xvi.


minuti dopo, sulla riva destra del Tom, vasto come un canale marittimo, velato dalla bruma.

Halte! Regardez ici, Messieurs! — ci comandò una voce imperiosa.

Era un fotografo, dall’aspetto di ufficiale di cavalleria in ritiro, il quale, coadiuvato dalla moglie aveva messo in batteria un’enorme macchina fotografica, e ci attendeva al varco chi sa da quale ora. Guardammo ici. Egli cambiò la lastra ordinandoci:

Ne bougez pas!

— Ma abbiamo fretta!

Moi aussi!

Finì la sua operazione preliminare, ci rifotografò, e poi additando la macchina ci disse solennemente:

C’est la gloire! Adieu!

Traversammo il Tom sopra il più bizzarro battello del mondo, mosso da quattro cavalli che, trotterellando in giro sulla prora come in un molino, comunicavano il movimento a delle primitive ruote a pale, cigolanti e pigre.

Alle cinque lasciavamo questa stravagante navigazione ippica, e cominciammo a correre al sud, lungo la sponda sinistra del Tom. Dopo una ventina di verste per una campagna collinosa e triste, c’internammo in una magnifica foresta di abeti giganteschi, ultimo lembo della taiga tenebrosa, imponente e sinistra. Ci urgeva di abbandonarla. Per un certo tratto la nostra strada, quella per la città di Kolywan, lontana 230 chilometri da Tomsk e dove speravamo di giungere alla sera, è comune con la strada che scende a Barnaul, al sud, vicino alle sterminate steppe di Barabas, e cercavamo il bivio per volgere a ponente. Interrogammo i rari mujik che passavano con le loro teleghe, ma essi ignoravano la direzione per Barnaul e Kolywan. Non conoscevano che il loro villaggio e la via di Tomsk.

Tememmo ad un certo punto di aver sbagliato la strada, di esserci completamente perduti. Ci sembrava che la foresta ci avesse afferrati e ci tenesse legati nell’intrigato labirinto dei suoi