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gli urali 401


Io tacevo, lavoravo, mi occupavo, dimenticavo la sua presenza. Poi, ad un tratto mi sentivo chiedere:

— Avete pensato?

Egli era là, sempre là, implacabile. Cercavo di consegnarlo ad Ettore, ma inutilmente. Egli era persuaso che io conoscessi delle cose straordinarie sulla Pechino-Parigi.

Tjumen ha veramente l’apparenza di una città della Russia d’Europa, con le grandi strade acciottolate, i palazzi non più di legno ma di muro, i marciapiedi alberati, l’abbondanza di scritte sui negozi — le quali indicano una certa percentuale di gente che sa leggere. Nella Siberia sono più le insegne che le scritte, anche nelle grandi città; sulle botteghe si ammirano molte pitture e poche parole: le cose vi sono espresse col disegno e con i colori; si vedono cappelli, scarpe, samovar, abiti, ruote di carrozza; si è ancora in piena epoca del geroglifico. Con Tjumen principia evidentemente un paese più familiare all’alfabeto.

Eravamo infatti quasi sui confini politici dell’Europa.


Ripartimmo alle quattro del mattino del 19 luglio, diretti a Jekaterinburg, lontana 328 chilometri.

A Tjumen la steppa finisce. Vicino alla città essa comincia a trasformarsi, a poco a poco, insensibilmente. Vedemmo gli arbusti e i cespugli crescere, allargarsi, infoltirsi, ridivenire alberi, ed ergersi su tronchi sempre più forti, alti, direi quasi prepotenti. La foresta ritornava. Essa riprendeva lentamente possesso della terra, e vinceva la steppa.

Ci trovammo, quasi senza accorgercene, all’ombra di gigantesche betulle fiancheggianti la via. Formavano da prima due immensi e superbi filari; poi si spessirono, divennero bosco, un bosco rigoglioso entro il quale la strada si bucava un passaggio. Alle betulle si frammischiarono gli abeti; sopravvenne quindi l’immensa armata dei pini, con i loro tronchi simili a snelle colonne rossicce. Le tracce del transito si cancellavano sulla via ricoperta selvaggiamente d’erbe. Avevamo l’impressione di entrare