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410 capitolo xviii.


Attraverso questo paesaggio primordiale camminammo per due ore. Non avremmo mai creduto di trovarci in una delle più industri regioni russe, se non avessimo scorto ogni tanto, in fondo a qualche vallata, al di sopra della massa scura degli alberi, levarsi ciminiere fumanti di opifici, di miniere, di fonderie. La ricchezza di queste contrade non è sulla terra: è sotto. Diboscare è inutile. Quando si scopre una miniera si crea una strada per trasportarne i prodotti, ed è tutto; il paese può rimanere selvaggio. Dovevamo spesso rallentare la corsa o fermarci per lasciar passare lunghe carovane di centinaia di teleghe cariche di ferro, di carbone, di rame, dirette a Jekaterinburg dove una breve ferrovia porta questi frutti degli Urali a Tscheljabinsk, sulla gran linea di transito. Ora una linea diretta fra Jekaterinburg e Kazan è in costruzione, e c’incontrammo più volte nella mattinata sui lavori ferroviari che tagliavano la nostra strada e ci costringevano a percorrere tratti di banchine terrose, a traversare passerelle malferme e ponti provvisori. I carrettieri degli Urali c’ingiuriavano. Non ce ne sentimmo offesi: vedevamo in quelle ingiurie il segno più evidente di essere giunti in Europa. Il paesaggio, presso a poco, poteva essere anche asiatico; era bene che ci accorgessimo che qualche cosa mutava. La pazienza e la serena benevolenza degli abitanti erano rimaste all’altro versante.

Verso le dieci eravamo nuovamente nella pianura. Pioveva. Avevamo lasciato Jekaterinburg sotto un promettente sereno; ora minacciava un diluvio. La strada, passata la regione delle miniere, ridiveniva cattiva, melmosa, difficile. Le distanze ci sembravano interminabili. Eravamo trattenuti da salite ribelli quasi come quelle di Krasnojarsk, ma, dopo qualche tentativo per superarle, trovavamo quasi sempre il modo di evitarle andando sull’erba dei prati. Cominciavamo ad essere interamente ricoperti di fango. Il fango schizzava così assiduamente su di noi, che avevamo dovuto rinunziare a mangiare un boccone di cioccolata per riconfortarci; non avevamo fatto in tempo a tirar fuori quella