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446 capitolo xx.


lasciarono soli. Le donne e i bambini andarono a dormire in un andito, per terra. Gli uomini rimasero a lungo sulla soglia dell’isba, e li udimmo cantare per ore di quei melanconici canti slavi solenni come preghiere. Poi, sopita forse l’ebrezza dal freddo della notte, tornarono al mulino, che si rimise al lavoro: ta-ta-ta-ta....

Noi ci eravamo sdraiati sul pavimento. Io non potevo dormire; dei grossi topi si rincorrevano intorno. Improvvisamente mi sentii investire da un soffio d’aria fresca. Mi accorsi che la porta si apriva adagio adagio. Qualcuno voleva entrare senza farsi udire.

Sollevato sul gomito, sforzai la vista nel buio. Dallo spiraglio della porta filtrava un barlume di luce che mi permise di vedere, o meglio d’indovinare la persona che s’introduceva così furtivamente nella nostra stanza: era la donna, la giovane. Distinguevo il biancore del suo lungo camiciotto bianco. Essa, aperta la porta, ristette sulla soglia ascoltando. Che voleva? Io guardavo con intensa curiosità.

Rassicurata dal silenzio entrò. Era scalza, e non faceva il minimo rumore; pareva un’ombra. Si diresse con sicurezza verso un angolo, si chinò a frugare. Mi ricordai: era il posto ove essa aveva nascosto la vodka. Infatti sentii, da un lievissimo rumore del vetro, che afferrava la bottiglia; la vidi risollevarsi. Dopo un istante udii un gorgogliare leggero del liquido, lungo, interrotto da sospiri....

La brava donna beveva.


Ci rimettemmo in marcia alle sei del mattino. Le strade erano prosciugate, e migliori. Per lunghi tratti trovammo un terreno simile a quello della steppa, sul quale potemmo lanciarci a grandi velocità. Attraversammo Tschebokssary, nell’ora del mercato, vecchia città di provincia che ha una sonnolenta aria di riposo, come di città pensionata. Passammo per un villaggio in giorno di fiera, strano per la gran folla tutta vestita di bianco e di nero, una folla che aveva un’apparenza monacale. A mezzogiorno eravamo a Wassilsursk, graziosa cittadina sulla riva destra del Sura