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452 capitolo xx.


soltanto allora, preceduta dalla piccola, lontana avanguardia di Kazan. Cominciava a Nishnii-Nowgorod, città indimenticabile che segnava per noi l’inizio della fase risolutiva del viaggio. Ci pareva l’inizio della civiltà.

L’Europa non ha i suoi confini come vogliono i geografi, e come noi avevamo creduto, tra le foreste degli Urali; no: essa comincia a Nishnii-Nowgorod, con quella striscia bianca sulla quale correvamo, larga, invitante, nastro infinito che partendo da lì ravvolge tutte le nostre nazioni. Ci sembrò allora, allora soltanto, di aver trionfato di ogni difficoltà: non avremmo dovuto più scalare rocce, scendere precipizi, sobbalzare sopra tronchi d’albero; non saremmo più affondati in paludi insidiose: non avremmo più dovuto cercare la direzione tra le erbe degli acquitrini e gli alberi delle foreste. La strada ci conduceva: essa era la nostra amica, la nostra guida, ci sorreggeva, ci accompagnava alla mèta.

Mandammo un grido di gioia quando, dall’alto d’una collina la vedemmo svolgersi fino all’orizzonte. E pure, rimaneva in noi un senso di dubbio, una vaga ansia: eravamo stati troppe volto ingannati, e temevamo ancora un poco che essa ci sparisse, ci abbandonasse. Non potevamo abituarci ad un cambiamento così completo e repentino. E così bello.

È stato forse per renderci il cambiamento un po’ meno radicale, per mettervi una certa sfumatura, che anche la Moskowskaja volle essere almeno ostile in qualche cosa, sul principio: nei ponticelli. I suoi ponticelli erano vecchi e malsicuri. Sentivamo sotto le ruote l’aborrito scricchiolare del legno. Mentre correvamo veloci, ecco uno di quei ponticelli cedere sotto il peso dell’automobile; una tavola si spezza. Borghese grida ad Ettore che conduce:

— Forza: A tutta forza!

Il motore romba alto, e la macchina, che pareva stesse per arrestarsi, balza in avanti sulle tavole tutte inclinate. È in salvo. Dietro a noi udiamo un cadere di legname. Dopo una cinquantina di