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494 capitolo xxii.


Entriamo alle cinque nei sobborghi di Aquisgrana. Della folla accorre, saluta con evviva ed auguri quando ci fermiamo a vuotare dei bicchieri di birra fresca avanti ad un caffè. Troviamo un altro pilota pieno di premura, ma che sbaglia strada e c’incammina verso Bruxelles. Ce ne accorgiamo e lo lasciamo dirigendoci sulla via di Liegi. Ci avviciniamo velocemente alla frontiera.

Dopo tante accoglienze festose, finalmente riceviamo un saluto meno benevolo: una vecchia contadina, mentre attraversiamo al passo il suo villaggio, affacciata ad una finestruccia tende rabbiosamente i pugni verso di noi gridandoci inviperita:

— Vi riconosco, canaglia! Siete voi che mi avete schiacciato la gallina giovedì! Pagate!

L’accusa è ingiusta, ma non ci addolora. Proseguiamo la corsa febbrile,

Eccoci al confine: un confine alla buona, senza catene, del quale ci accorgiamo appena dal modesto palo che indica il limite del territorio tedesco. Gli uffici doganali sono lontani dalla strada, e perdiamo mezz’ora per trovarli.

Il nostro ingresso nel Belgio ottiene un successo d’ilarità. Il telegrafo non ci ha annunciati, questa volta. Il nostro itinerario non è noto. Per la gente che ci vede siamo semplicemente degli esseri buffi, sopra un’automobile stravagante. Le nostre facce coperte di polvere nera, gli abiti stracciati, appaiono sommamente ridicoli.

A Verviers una grossa bottegaia, seduta fuori d’un piccolo negozio, grida vedendoci:

Oh! les laids!

Poco dopo anche un carrettiere esclama convinto:

Oh! les laids!

e ferma il carro per guardarci meglio. Si direbbe che il grido passi come un nuovo saluto. Si propaga. Da ogni parte udiamo: Oh! les laids! Non dubitiamo un momento che l’esclamazione non sia profondamente sincera. Tutti si fermano, guardano, ridono,