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Gennaio 1916.


Nella residenza del Comando Supremo dell’Esercito vi è un uscio che, simile a quello fatato della leggenda indiana, restituisce gli uomini sempre diversi da come sono entrati. Nessuno lo riattraversa con la stessa anima di prima.

Esso s’inquadra sulla parete chiara di un ampio salone, arioso, profondo, inondato dalla luce che irrompe da grandi vetriate, oltre le quali si profila la grigia balaustra di un lungo balcone sulle nebulosità lontane di alberi nudi. Inoltrandosi nella nobile sala vien fatto istintivamente di abbassare la voce e di camminare con cautela per non fare rumore. Vi si respira la solenne atmosfera di rispetto e di raccoglimento di un luogo sacro. Varie porte in giro si aprono e si chiudono continuamente al passaggio rapido e discreto di ufficiali affaccendati, ma ad una sola gli sguardi e il pensiero dei presenti si volgono al minimo rumore con una fissità improvvisa che sembra densa di indefinibile attesa.

Dei capi dello Stato Maggiore, gravi, pen-