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168 la montagna delle folgori


rore, si prolunga nello Sleme, sui cui nevai bassi vedevamo serpeggiare camminamenti nemici, sui quali si sgranava un rosario d’uomini in marcia. Più lontano il Merzli.

Scorgevamo sotto alla sua vetta, ispida di un resto di selva stroncata dal cannone, i solchi delle nostre trincee, audaci, esposte ai fuochi d’infilata, solchi arditi che disegnano l’attacco, linee di ostinazione. Non vi sono angoli morti lassù, non vi sono posizioni defilate, non vi è uno spazio sicuro per costruirvi un rifugio. Tutta la zona è battuta. I soldati sui rovesci si ricoverano e dormono nei «canili», in baracchette minuscole che si fabbricano lontano e sono portate su a spalla. Vi si entra carponi, vi si sta sdraiati, ognuna contiene due uomini. A seconda del tiro nemico, i soldati si spostano con la loro casetta. Mentre guardavamo delle grosse granate scoppiavano sulla vetta mettendovi pennacchi di fumo rossiccio, e gli echi del Rudecirob e del Monte Rosso ruggivano.

Avevamo sete di vedere, prima che l’ultima luce fuggisse. L’azzurro dell’ombra era salito alle creste, e un vento fresco sollevava lievi vortici di nevischio intorno a noi. Sull’altro versante del Kozliak, verso ponente, indugiava il crepuscolo. Sulla costa del Vrata, la continuazione del Monte Nero verso Plezzo, coperta di neve, salivano delle truppe alpine perseguitate da shrapnells austriaci. Non si