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verso la vetta del monte nero 179


di nebbie. Salendo, si entrava nell’ombra. L’oscurità era in alto e la luce in basso. Ci immergevamo gradatamente in un crepuscolo freddo e sinistro, mentre giù in fondo in fondo, in una conca verde, chiara e lieta, Drezenca impiccioliva a poco a poco, come vista dalla navicella di un pallone, un po’ velata, quasi sfiorata da un sole d’alba. La perdevamo di vista alle giravolte del sentiero scosceso, poi ricompariva, sempre più lontana, sempre più pallida, con i suoi tetti di stoppia che parevano posati sulla terra, col dado chiaro della sua chiesa gotica isolato dal gregge delle casupole, piena di un brulichìo di punti grigi, e arrivava fino a noi un confuso strepito di lavoro: uno scarpellìo minuto sulle pietre dei cantieri, un battere remoto di martelli, un picchiettare di attrezzi, uno strisciare di seghe, un pulsare indefinito di attività.

Drezenca era un villaggio slavo, sudicio, miserabile, pittoresco. Quando gli abitanti vi torneranno, stenteranno a riconoscerlo. Troveranno che delle vecchie stalle si sono trasformate in nitidi ospedali, che delle rimesse sono divenute stabilimenti di bagni, che delle stamberghe si sono mutate in villette; troveranno numerose fontane dalla vasca di cemento, alle quali un nuovo acquedotto porta acqua perenne, comparse come per prodigio, vedranno strade lastricate dove avevano lasciato vicoli melmosi e fetidi, muraglie candide al posto delle vec-