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oslavia 71


è devastato, schiantato, abbattuto, diroccato, sconvolto. Non più case, non più alberi, non più strade; la terra stessa, sventrata, ha assunto profili tempestosi di un colore rossastro di zolla nuda. Il combattimento sospinge e ritrae a volta a volta la linea spezzata delle posizioni, instabile nel fuoco, una linea che con i suoi parapetti informi, con i suoi blindamenti affrettati, con i «cavalli di Frisia» malconci dalle esplosioni e gettati in disordine sul bordo delle trincee, ha da lungi l’apparenza bizzarra di un allineamento disordinato di travi e di cose informi, creato dalla battaglia come quelle bordure di rottami che la burrasca lascia sulla spiaggia al limite dell’onda.

È più difficile tenerle quelle posizioni che prenderle, da una parte e dall’altra. Nessuno dei due avversarii può mai dirsi definitivamente insediato. Oslavia è passata quattro volte da una mano all’altra; talora nel corso di poche ore. Non ha più di tre chilometri di fronte quel campo di battaglia ma sono tre chilometri di inferno sui quali battono artiglierie che sarebbero bastate in altri tempi all’azione di un esercito.

La prima volta che mi sono avvicinato alle posizioni di Oslavia ne ho avuto un’impressione sinistra che non si è cancellata più. Mi è parso di affacciarmi su non so quale favoloso vallone della Morte. Era un’alba di battaglia, un’alba fredda, bieca, truce, fosca, brumosa, nella