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lando dopo ogni schianto vicino. Qualche ferito veniva raccolto sulle retrovie; le prime barelle sbucavano faticosamente dai sentieri coperti.

In un rifugio profondo scavato nella roccia, una specie di catacomba, i telefonisti di un comando, in fila, ognuno davanti al suo apparecchio, gridavano tutti insieme, trasmettendo ordini, rapporti, istruzioni, e in un pandemonio di voci le conversazioni s’intrecciavano, si sovrapponevano, in una confusione folle, mentre alle spalle dei telefonisti era un passare febbrile di aiutanti e di piantoni che porgevano o prendevano carte, e tutto questo in una tenebra da miniera diradata appena da una luce vacillante di candele, attaccate con qualche goccia di cera alle sporgenze della roccia. Quando scoppiava qualche granata vicina, la catacomba sobbalzava; delle pietre cadevano con tonfi sordi dalla vôlta puntellata, e subito dopo passava un soffio possente, lo spostamento d’aria dell’esplosione, che spegneva tutte le candele. Il gridìo delle trasmissioni continuava nel buio.

Gli scoppi pareva venissero su dalla terra, come brevi eruzioni. Un grosso proiettile si annunziò col suo muggito sonoro, cupo e intermittente. «Eccolo, eccolo!» — esclamò qualcuno. Chi udì il rombo si curvò ed attese. Uno schianto enorme e profondo, una pioggia di terriccio, di fanghiglia, di sassi copre tutti, uno svolgersi lento di fumo giallo e denso invade ogni cosa. Poco dopo delle voci concitate gri-