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88 la lotta a oslavia


passavano raffiche clamorose di schegge, di pietre, di detriti, di rottami, di pallottole, di fili di ferro strappati alle difese e staffilanti l’aria con sonora veemenza. Si videro, poco a tergo delle posizioni, dei tronchi d’albero enormi, sfrondati e cincischiati dal fuoco dei combattimenti passati ma rimasti fino allora saldi come colonne, schiantarsi e sparire lanciati lontano nel barbaglìo di un baleno.

Entro le trincee passavano soffi possenti e caldi, buffate di un ardente uragano, travolgenti e brevi: l’alitare impetuoso delle esplosioni vicine. Non si ascoltava più l’ululato delle granate in arrivo, quella gran voce sovrumana che avverte; troppo vasto era il coro prodigioso dei proiettili che solcavano il cielo, e gli scoppi stordivano come percosse.

Il rancio caldo non poteva essere portato lungo i camminamenti battuti, e la truppa mangiava i viveri di riserva, quando si ricordava di mangiare. Le perdite indebolivano certi reparti più esposti, battuti d’infilata; qualche plotone non aveva più comando. Da quell’inferno arrivavano fonogrammi pieni di calma e di fiducia.

L’eroismo della fanteria nella guerra moderna è quasi sempre una virtù di sopportazione, la forza di una immobilità; si combatte giacendo senza difesa in una bufera di morte. Il nemico non si vede, il pericolo non si para, e il valore di una difesa è in una tenacia