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oslavia 89


passiva, nell’inerzia di una attesa indefinita entro un’atmosfera di massacro. L’unico nemico col quale si lotti in quelle ore eterne è il proprio istinto; bisogna inchiodarsi con la volontà sulla posizione insanguinata. Nulla può soccorrere, l’arrivo di rinforzi nelle trincee tempestate non diminuirebbe il pericolo e aumenterebbe le perdite. Il rinforzo si risolverebbe in un indebolimento. È necessario che gli effettivi in prima linea siano minimi e siano saldi.

Vi è un solo momento in cui la loro presenza in trincea è indispensabile, il momento nel quale il cannone tace e la fanteria avanza. Per aspettare questo momento risolutivo dell’urto, debbono sottomettersi in silenzio per giorni e giorni alla folgorazione delle artiglierie, essere delle cose, essere come delle zolle viventi della terra flagellata. Quando il terreno lo permette, i difensori si ritraggono dalla linea battuta e si tengono al coperto aspettando l’assalto e, appena l’artiglieria tace, si ributtano avanti, ripopolano la posizione abbandonata, e sulle trincee demolite fermano l’avanzata nemica. A Oslavia i rovesci non offrivano rifugio.

Solo la magnifica resistenza del soldato italiano al bombardamento rende possibili certe situazioni. Non so quali truppe più delle nostre posseggano questo spirito di sacrificio, di abnegazione, di rassegnazione, di disciplina, e tanto coraggio di fronte all’ineluttabile.