Pagina:Bellentani - La favola di Pyti, 1550.djvu/66

Da Wikisource.

LA FAVOLA

Ò diletto mio ben, ben mio diletto
     (Disse con modi da infiammare i sassi)
     Beltà che’n Donna amai, hor’in augello
     Amo et sempre amerò, però non piango
     Il doglioso tuo fin come vorrei,
     Perche non lice, et è disdetto al pianto
     Bagnar celesti aspetti. Et però l’opra
     Mia non ti giova, in farti al primo stato
     Tornar, si come i bramo, perche à nullo
     Lice tra tanti Dei, far van fatti
     D’alcun tra tanti Dei. Ma quel ch’i posso
     Donarti, dono, onde dal nume mio
     Havrai scudo cotal, ch’eternamente
     Non mi farai men cara, ne men sacra,
     Che caro et sacro à Phebo è il Cigno, e à Giove
     L’Aquila si pregiata, et à Minerva
     La Nottola, et à gli altri i loro augelli.
     Anzi, come pe’l mar l’usata conca
     Tallhor mi mena, così in terra e in Cielo
     Vedrai carro guidar miei gran viaggi
     Da due Colombe à fren gionte tirato.
     Non si vedrá più mai, che da Gradivo
     Tolga carro et destrier, si come tolsi
     Per gire al Ciel, dal mio nimico Greco
     Percossa, che’l ricordo anchor mi coce.
Ne à pena hebbe ciò detto, ch’al suo carro