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AMORE
di tepidi diletti e del librato
util decoro, con gran senno, in parte
il giogo alleggeristi al tuo consorte.
Oh! placide i papaveri versate
su Cornelia e su Memmo, Ore venture.
Né Incostanza, che regna prima dea,
mai si attenti turbar quelbaurea pace.
Ma tu, Musa, che godi anco immortale
volger le cure a noi mortali, e solo
lieta sei quando l’operosa tua
destra dall’uom respinge una sventura,
a lei discendi quando ella si rode
d’alcun dispetto solitaria. Il molle
omero palpa e la man bianca, e dille:
— Cornelia mia, a te d’amor tien loco
l’altrui servire, e il nome anco ne usurpa.
Ma se aspro anello te l’avvinghia, il veltro
giá non ti lambe o ti accarezza: esosa
gli diventa la vita, ed il guinzaglio
rompe alfine e ti scappa. Or tu che brami
catenario per sempre, a lui soave
rendi il servir, s’esser soave mai
può servitude. Non gli far rampogna
se furtivo talora egli a venale
Venere scende, ma ten fingi ignara.
Fa’ che risplenda d’eleganti ancelle
la tua magione: né ti dar pensiero
se i pudibondi volti a poco a poco
ammansarsi tu vedi e lascivire.
Ché spesse volte ancor lascia in obblio
nobile fianco l’achemenio nardo,
né di gonna volgar l’ irco disdegna.
Guai se te colle sue luride branche
afferra Gelosia! Deh! chi ti salva?
Pon mente a Giuno, e vedila infelice;
eppur regina degli eterni incede.
Ben piú danno ti fora ov’egli in altro
patrizio tetto prorompesse. Un ghigno
giovar può forse a studiato tempo,
ed una lagrimetta. E si fortuna