Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 28 — |
casupole di contadini, o pastori i quali se la vivono alla buona, o diremo anzi alla patriarcale, lontani quasi affatto da ogni commercio co’ centri popolosi delle città e delle borgate e contenti come pasque della loro condizione.
Tenaci della fede dei padri, di mente sveglia, pronti all’apprendere, come quelli che, nati in luoghi alpestri e necessitati la maggior parte ad emigrare fin da giovinetti nelle maremme toscane e in Sardegna, son costretti ad aguzzare l’ingegno onde procurarsi da vivere.
A proposito dei Verniotti, dei quali moltissimi emigrano periodicamente, mi sembra si attagli a capello quel che dice il Giusti in una sua lettera sui montanini pistoiesi:
«Gli abitanti son vispi, sani, segaligni, astuti e serviziati; togline pochi che si guastano nell’anima e nel corpo giù nel buglione delle maremme toscane e romane. Vanno a svernare nel piano, emigrano a stormi coi bestiami, lasciando lassù solamente i vecchi, le donne e i bambini; e chi va al taglio delle legna e dei boschi per farne carbone e potassa; chi a tendere i lacci agli uccelli; e i grandi arrosti di beccaccie, di merli e di tordi che trangugiano i mangiapani a desinari illustrissimi, son frutto delle fatiche di quella povera gente che s’arrabatta per tre o quattro mesi nel cuor dell’inverno, per riportare a casa venti francesconi. Tornano a casa riunti di borsa, smunti di salute, e spesso intaccati da’ vizi, che lassù in quei luoghi lontani da serbatoi di corrutela ti dànno nell’occhio tanto più quanto meno te l’aspetti, come la virtù nelle città grandi.»1