Pagina:Bianchi-Giovini - Biografia di Frà Paolo Sarpi, vol.1, Zurigo, 1846.djvu/282

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274 capo xiii.

dimostrazione, e indusse anco il Senato a fare lo stesso ufficio col mezzo del suo ambasciatore a Londra. Infatti il re Giacomo rinovò le fatte proferte, le accrebbe e dichiarò in termini espliciti che, data la guerra, ei sarebbe tutto per la Repubblica. Era lo stesso che tirarvi la Francia. Questi raggiri diplomatici bastarono a fare avvisata la corte di Madrid che non era più tempo di lusingare il pontefice con vane promesse, al quale fece prima intendere che non desse retta alle ciancie del conte di Fuentes; il Milanese essere esausto, anzi rovinato dalle soldatesche, nè forse potersi così facilmente imprendere una guerra: il più sicuro essere la via degli accordi. Poi il marchese Aiton andato ambasciatore a Roma si palesò più schietto, dicendo che il re Cattolico non voleva guerra in Italia, e che era un abbassare la dignità apostolica volendo con mezzi umani sostentare un’autorità divina: scherno amaro giunto alle mancate promesse. Il papa allora veduta infruttuosa la missione del Castro e consigliato anco da varii cardinali, tra cui il Baronio mortificato che il suo spirito profetico non fosse rinscito a bene, si decise a cercare sinceramente la concordia.

(1607). Lungo sarebbe dire tutto il successo di questa trattazione: basti sapere che nissun altro negozio in quel secolo apparve di uguale importanza. Occupò l’attività di dieci o dodici ambasciatori. Enrico IV, il re di Spagna, il re d’Inghilterra, l’imperatore, i duchi di Savoia, di Mantova, di Toscana, il marchese di Castiglione s’intromisero: si maneggiarono il conte d’Alincourt, il cardinale du Per-