Pagina:Bianchi-Giovini - Biografia di Frà Paolo Sarpi, vol.2, Zurigo, 1847.djvu/237

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capo xxv. 229

conoscendo la dappocaggine del re e la gelosa debolezza del favorito usavano a modo loro con potere dispotico, opprimendo i sudditi con guerre e rapine, e molestando i vicini principi di ogni prepotenza, non disdegnando per giungere ai loro fini le fraudi e il tradimento, artifizi legittimati dalla depravata morale di quei tempi. Ond’era nato in Italia un odio grandissimo contro quella nazione, e un proverbio popolare maledetta la Spagna, che dura ancora, ricorda tuttavia ai posteri la tirannia di quei governanti. Deboli e divisi, i principi italiani mordevano il freno, pure ubbidivano. Ma Venezia già da più anni aveva posta la principale sua politica ad attraversare i disegni de’ Spagnuoli; e convinta che la mala amministrazione della monarchia non le avrebbe mai permessa una grossa guerra, e che il Lerma per ozio, per nissuna pratica d’armi e per invidia a’ capitani e tema di diventare disutile, era sommamente affezionato a misure di pace, la Repubblica sovveniva ora di denari ora di soldati i principi italiani che dai pascià spagnuoli fossero aggrediti, nè mancava nelle corti forestiere di suscitar sospetti e traversie contro le mire ambiziose di quella di Madrid.

Da ciò nacque negli Spagnuoli un odio smisurato contro di lei, e tale desiderio di nuocerle che la Repubblica in piena paca viveva con loro come se fosse in guerra, sospettosa e guardinga. Era allora governatore di Milano don Pietro di Toledo, e vicerè di Napoli il famoso duca di Ossuna, e ambasciatore di Venezia il marchese di Bedmar, tutti tre infensissimi a San Marco. Toledo, poco abile capitano