Pagina:Boccaccio, Giovanni – Il comento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante, Vol. III, 1918 – BEIC 1759627.djvu/25

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a noi: percioché ciascuna cosa, alla quale l’acume del nostro vedere non può trapassare, diciamo essere oscura e simile alla notte; e cosi non potendo trapassare dentro alle segrete cose del divino intelletto, essendo offuscati dalla mortai caligine, quantunque esse in sé sieno splendidissime, a quelle attribuiamo il vizio della debolezza del nostro intelletto, e chiamiamo notte quella cosa che è chiarissimo di: e cosi queste fate, da noi non intese, diciamo essere state figliuole della Notte.] [Sono, oltre a’ propri nomi, chiamate queste fate da Tullio Parche; e credo le chiami cosi per contrario, percioché esse non perdonano ad alcuno. «Fato» o «fate» son nominate da «for faris», il quale sta per parlare; e questo è, percioché pare ciò che avviene essere stato prima parlato, prevedendo, da Dio. Il che pare che santo Agostino senta nel libro De civitate Dei\ ma, come altra volta è detto, pare che egli abbia in orrore il vocabolo, ammonendone che se alcuno la volontá di Dio o la podestá chiami fato, che esso tenga la sentenza, ma rifreni la lingua in non nominarlo cosi. E questo al presente basti aver detto delle fate.] Séguita adunque, continuando le parole dell’angelo, l’autore: — «Cerbero vostro, se ben vi ricorda, Ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo». — Perché questo avvenisse è mostrato di sopra, dove di Teseo si ragionò. «Poi», che queste parole ebbe dette, «si rivolse», l’angelo, «per la strada lorda», del padule di Stige, «E non fe’ motto a noi», percioché l’uno era dannato, e l’altro non era ancora in tanta grazia di Dio, che meritasse o saluto o altro dall’angelo. E se forse dicesse alcuno: esso parlò verso i diavoli, come non poteva egli far motto a costoro, che erano assai men colpevoli? Puossi cosi rispondere: esso aver parlato a’diavoli in loro confusione e danno; il che costoro non meritavano, percioché non avean commesso quello che i demòni. «Ma fe’ sembiante D’uomo, cui altra cura stringe e morda, Che quella di colui che gli è davante»; e cosi trapassò oltre. «E noi movemmo». Qui comincia la quinta e ultima parte di questo canto, nella quale l’autor pone come nella cittá