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100 Giovanni Boccacci

     Vatten adunque omai, non aspettare
     D’esser cacciata, et altrove ristoro
     Prendi, se puoi, di questa mia trestitia1.


LXVIII.


De’ quanto è greve mia disaventura
     E mobile più ch’altro il viver mio!
     Io piango spesso co’ tanto disio
     Quant’alcun rida, e, mentre il pianto dura,
     Vien nella mente mia quella figura5
     Che ppiù ch’altro mi piace2, sallo iddio;
     Quivi col lieto aspetto vago e pio
     Conforta ’l core e ll’alma rasicura,
Dicendo cose, ch’ogni spiritello
     Smarrito surge lieto e pien d’amore,10
     E me fan più ch’alcun altro contento.
     Di quinci nasce chi3 dal viso bello
     Mi mostra esser lontano, onde ’l dolore
     Torna più fier che prima per l’un cento4.


  1. Questo sonetto e il successivo, in cui il Boccacci lamenta la sua lontananza dalla donna amata con accenti che mal si converrebbero ad una separazione temporanea, e che mostrano piuttosto di essere inspirati dal dolore per un distacco che non si prevede debba cessare, appartengono, a mio giudizio, al periodo seguìto al ritorno del poeta in Firenze.
  2. L’immagine della sua donna.
  3. Un nuovo pensiero.
  4. «Cento volte tanto.» È locuzione frequente nella lingua dei primi secoli. Il concetto svolto in questo sonetto è anche espresso nel Filocolo (III), là dove è rappresentato il dolore di Florio per la sua lontananza da Biancofiore: ‘Quando avveniva che egli solo