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inferno con tanta pena, che, queste cose veggendo non dovesse sentire allegrezza? Certo niuna, credo. Esse pur, prese dalla piacevolezza della cetara d’Orfeo, obliarono per alquanto spazio le pene loro; ma io tra mille strumenti, tra infinite allegrezze, e in molte e varie maniere di feste, non posso la mia pena, non che dimenticare, ma solamente un poco alleviare.
E posto che io alcuna volta a queste feste o a simiglianti con infinto viso la celi, e dea sosta a’ sospiri, la notte poi, o qualora soletta trovandomi prendo spazio, non perdona parte delle sue lagrime, anzi piú tante ne verso, quanti per avventura ho il giorno risparmiati sospiri. E inducendomi queste cose in piú pensieri, e massimamente in considerare la loro vanità, piú possibile a nuocere che a giovare, si come io manifestamente, provandolo, conosco, alcuna volta, finita la festa e da quella partitami, meritamente contra alle mondane apparenze crucciandomi, cosí dissi: Oh, felice colui il quale innocente dimora nella solitaria villa, usando l’aperto cielo! Il quale, solamente conoscendo di preparare maliziosi ingegni alle selvatiche fiere, e lacciuoli a’ semplici uccelli, da affanno nell’animo essere stimolato non puote, e se grave fatica per avventura nel corpo sostiene, incontanente sopra la fresca erba riposandosi la ristora, tramutando ora in questo lito del corrente rivo, e ora in quell’altra ombra dell’alto bosco li luoghi suoi, ne’ quali ode i queruli uccelli fremire con dolci canti, e i rami tremanti e mossi da lieve vento, quasi fermo tenenti alle loro note! Deh, cotale vita, o Fortuna, avessi tu a me conceduta, alla quale le tue disiderate larghezze sono di sollecitudine assai dannosa! Deh, a che mi