Pagina:Boccaccio - Filocolo di Giovanni Boccaccio corretto sui testi a penna. Tomo 1, 1829.djvu/116

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Oimè, Aretusa, quanto miseramente, fuggendo il tuo amante, divenisti fontana! e io più affannata di dolore che tu di paura, non sono da loro udita, nè però si muovono a pietà! Ahimè, Ecuba, quanto ti fu felice nel tuo ultimo dolore, poi che morte t’era negata, il convertirti in cane! Io ti porto invidia; e similmente alla tua morte, o Meleagro, la cui vita dimorava nel fatato bastone, però ch’io disidererei che i tuoi fati si fossero rivolti sopra di me! O sommi iddii, se i miseri meritano d’essere uditi, io vi priego che di me v’incresca, e che voi al mio dolore o fine o conforto sanza indugio mandiate. E tu, o più che crudele, te ne va’, chè in verità mai nel tuo aspetto non conobbi che crudeltà in te dovesse aver luogo. Ma poi che lontanandoti la dimostri, io ti giuro per l’anima della mia madre che mai sanza continua sollecitudine non sarò, sempre pensando com’io a vedere ti possa venire. E quale che modo io mi elegga, se io non sarò mandata a te, io vi pur verrò".

Florio, che malvolentieri a’ piaceri del padre avea consentito, ricevuto il comandamento del doversi partire la seguente mattina, e partitosi il re da lui, solo pensando si pose a sedere, e fra se medesimo dicea: "Oimè, or che ho io fatto? A che ho io consentito? Alla mia medesima distruzione, per ubidire il crudel padre! Or come mi potrò io mai partire sanza Biancifiore? Deh, or non poteva io almeno dicendo pur di no, aspettare quello ch’egli avesse fatto? Di che aveva io paura? Ucciso non m’avrebbe egli, chè io non m’avrei lasciato. Nè niuna peggior cosa mi potea fare che da sè cacciarmi: la qual cosa egli non avrebbe mai fatto; ma se pur fatto l’avesse, Biancifiore non ci sarebbe rimasa,