lui in altrui. E questa gli pareva sì soave operazione, che senza guardare che egli in ciò faceva ingiuria alla filosofica verità, la cui opera è di sanare, non di lusingare il passionato, che esso con la dolcezza delle lusinghe del potersi dolere insino alla sua estrema confusione, avrebbe in tale impresa proceduto: e perocchè questo è esercizio de’ comici di sopra detti, a fine di guadagnare, di lusingare e di compiacere alle inferme menti, chiama la filosofia queste muse meretricule sceniche, non perchè ella creda le muse essere meretrici, ma per vituperare con questo vocabolo l’ingegno dell’artefice che nelle disoneste cose lo induce. Assai è manifesto non essere difetto del martello fabbrile, se il fabbro fa piuttosto con esso un coltello col quale s’uccide gli uomini, che un bomere col quale si fende la terra, e rendesi abile a ricevere il seme del frutto, del quale noi poscia ci nutrichiamo. E che le muse sieno qui istrumento adoperante secondo il giudicio dell’artefice, e non secondo il loro, ottimamente il dimostra la filosofia, dicendo in quel medesimo luogo che è di sopra mostrato, quando dice: Partitevi di qui, serene dolci, infino alla morte e lasciate questo infermo curare alle mie muse, cioè all’onestà e alla integrità del mio stilo, nel quale mediante le mie muse io gli mostrerò la verità, la quale egli al presente non conosce, siccome uomo passionato e afflitto. Nelle quali parole si può comprendere, non essere altre muse quelle della filosofia che quelle de’ comici disonesti e degli elegiaci passionati, ma essere d’altra qualità l’artefice, il quale questo istrumento dee adoperare.