Pagina:Boccaccio - Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio nuovamente corretto sopra un testo a penna. Tomo II, 1831.djvu/190

Da Wikisource.
186 COMENTO DEL BOCCACCI

morendo ci convien qui lasciare quello che noi ne vorremmo portare, e portarne quello che noi vorremmo poter lasciare; e col doloroso incarico delle nostre colpe, in eterna perdizione, dalla divina giustizia, a voltare i faticosi pesi, come l’autore ne dimostra, mandati siamo. E acciocchè meglio si comprenda la gravità di questa colpa, e quello che l’autore intende in questa parte di dimostrare, e che l’uomo ancora si sappia con più avvedimento dalla meglio conosciuta colpa guardare, più distintamente mi pare che sia da dire che cosa sia e in che brevemente consista questo vizio dell’avarizia. È adunque l’avarizia, secondochè alcuni dicono, auri cupiditas, cioè desiderio d’oro: san Paolo dice ad Ephaesios v. avaritia est idolorum servitus: e secondo la sentenza d’Aristotile nel quarto dell’Etica, l’avarizia è difetto di dare ove si conviene, e soperchio volere quello che non si conviene. Che l’avarizia sia cupidità d’oro, in parte è già dimostrato, e più ancora si dimostrerà appresso; che ella sia un servire agl’idoli, seguendo la sentenza dell’apostolo, assai bene il dimostra san Geronimo in una sua pistola a Rustico monaco, dove dice: aestimato malo pondere peccatorum, levius alicui videtur peccare avarus, quam idolatra; sed non mediocriter errat: non enim gravius peccat, qui duo grana thuris projicit super altare Mercurii, quam qui pecuniam avare, cupide, et inutiliter congregat, ridiculum videtur, qui aliquis judicetur idolatra, qui duo grana thuris offeret creaturae, quae Deo debuit offerre, et ille non judicetur idolatra, qui totum servitium vitae