Pagina:Boccaccio - Ninfale fiesolano di Giovanni Boccaccio ridotto a vera lezione, 1834.djvu/234

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64 a messer francesco

rebbe a confortare me a scrivere contra la verità cosa alcuna. Di che, perocchè avvedere si potè, penso ch’io gli sia suto men caro, ed in prova, di vane promesse uccellato. Io udi’, e credo che sia vero, essergli dato a credere dal suo Coridone, uomo lusinghiere, il quale egli egli quasi l’oracolo d’Apollo Delfico onorava, con queste opere massimamente potere gli uomini farsi nomi perpetui: coll’arte dell’armi, con fare degli edificii, con la notizia delle lettere; e con tanta forza di parole avere ciò sospinto nel petto suo, che mai da lui questa opinione svegliere si potesse. E non era dannevole; perocchè, se largamente a tutte, o almeno ad una avesse data opera, forse che e’ sarebbe venuto colà dove desiderava. Ma che? e’ fu mortale, purchè vivuto e’ fosse, dicono alcuni, lui a lui credulo arebbe dimostrato con non so che ragioni, che egli è sommo in tutte, e per questo degno di perpetua fama, se i fatti suoi per lettere fossero commendati. Perocchè chi è di sì forte petto che agevolmente non creda quello che e’ desidera? conciossiacosachè, eziandio senza confortatore, molti al suo medesimo giudizio diano fede. Che male è questo che è così intorno a noi medesimi, i quali meglio conoscer dobbiamo? Siamo ingannati tutti. Ma tu dirai: e’ non è così; per estimazione di molti si crede quello che egli di sè pensa. Così veggo che colà si verrà, se così singularmente non esamineremo i meriti di costui, che e’ si creda me avere tenuto l’indebito peso delle sue opere, anzi piuttosto aver dato modo alla pusillanimità.

Che è adunque innanzi all’altre cose? Ovvero