Pagina:Boccaccio - Ninfale fiesolano di Giovanni Boccaccio ridotto a vera lezione, 1834.djvu/233

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epistola 63

degli uomini grandissimi il cadere? Il che se questo savissimo pensasse, appena credo che non che i più chiari di sè così in prova schernisse, ma i minori non terrebbe da poco, anzi porrebbe modo alle cose, e lieto, rimossi i supercigli gravi, con piacevole favella visiterebbe ciascuno: la qual cosa, perocch’egli è a sè stesso uscito di mente, schifa di fare. Io, al quale gravissimi sono questi costumi, acciocchè più oltre non fossi del nocevole peso aggravato, partire mi disposi; e a dare alla disposizione opera non indugiai, acciocchè io la ingiuria dello stomaco e la paura dell’animo ponessi giù.

Temetti ancora, e molto temetti, che agli omeri miei non ponesse il peso del suo grandissimo desiderio, cioè di scrivere le gran cose, le quali si crede, o vuole si creda per altri, lui aver fatte. Io m’era già avveduto dinanzi ch’egli il desiderava, e assai m’avvidi per altro non essere chiamato. È in lui, siccome io potei comprendere, cupidità sì grande di nome e di fama lunga, che niuna cosa è maggiore; e postochè ottimamente io sappia per qual via a questo si pervenga, niuna così fatta notizia è a lui; certo e’ si stima per li costumi suoi e per gl’inganni venire in quella, e co’ beni della fortuna, e non con sua operazione pigliare lei. Certamente egli è ingannato. Nondimeno e’ non è sì sciocco ch’e’ non lo conosca: ma e’ vorrebbe uno che con bugie colorate, in quella, scrivendo, lui menasse: la qual cosa arebbe il suo Coridon1 fatta, se e’ vivesse; ma più duro sa-


  1. Zanobi da Strada.