Pagina:Boccalini, Traiano – Ragguagli di Parnaso e scritti minori, Vol. II, 1948 – BEIC 1771928.djvu/143

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di mera rabbia; e che la molta sagacitá di Tiberio, usata in caso simile, l’aveva fatto accorto che onor maggiore gli averebbe arrecato vivere in Napoli re cornuto che onorato privato in Francia. A quel nobil francese condonò allora Apollo il disturbo ch’aveva dato, e a Tiberio comandò che seguitasse la sua difesa; il quale

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cosi disse: —E percioché la soverchia tolleranza della vergognosa vita, che teneva mia moglie in Roma, appresso il senato e il popolo romano senza fallo alcuno averebbe invilita e disprezzabile resa la persona mia, cosa che ad un soggetto mio pari, che con la speranza viveva di quella grandezza che acquistai poi, non punto minor danno averebbe apportato del risentimento ch’avessi fatto per vendicarmi, tra i due tanto pericolosi estremi, pigliai quel partito di mezzo che, nelle dubbiose risoluzioni, altrui suol sempre apportar felicitá; di modo che, per non trovarmi presente a quell’ingiuria che io non poteva né vendicare né tollerare, allontanandomi da Roma sotto colore di desiderio di ozio, andai ad ascondermi in Rodi. Questa mia modestia, questo gran rispetto che seppi portar al sangue di Augusto, fu la vera e piú principal cagione che non solo l’indusse ad amarmi, ma che strettamente l’obbligò a far meco quella gran dimostrazione di straordinaria dilezione, che dopo la morte sua vide il mondo. Perché quel prencipe, altrettanto sagace come glorioso, mosso a pietá della condizion mia tanto vilipesa, e dell’infame vita di sua figliuola sopramodo stomacato, quella rigorosa dimostrazione fece contro lei, che per norma dee servir ad ogni saggio prencipe come proceder deono con le figliuole loro impudiche. Se poi tanta pacienza, se il rispetto, la venerazione, l’esquisita ubbidienza e tanti altri virtuosi artifici, che per far innamorare Augusto di me continovamente seppi usare, sieno maniere viziose e, come a Vostra Maestá hanno rappresentato gl’inimici miei, inganni fraudolenti, lascio che lo dichino quei che deono giudicar la mia riputazione. Vengo ora al secondo capo dell’accusa: e vera confesso la crudeltá da me usata contro la nobiltá romana, e verissime dico esser le parole tutte che contro di me ha dette Tacito; ma solo desidero che quella differenza si faccia, tra la crudeltá che usa un prencipe nuovo e quelle che vengono esercitate da un antico