Pagina:Boetie - Il contr'uno o Della servitù volontaria.djvu/41

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gran bene, trattandogli come tante bestie. Ma gua’, no’ siamo impastati così deboli: spesso bisogna baciar basso al più forte, bisogna dar tempo al tempo; nè sempre si può più degli altri. Dunque, se un popolo per forza di guerra è costretto di servire ad Uno, come Atene a trenta tiranni, non c’è da maravigliarsi del suo servire, ma da piangere tale sventura; o meglio non si maravigliare e non piangere, ma chinar le spalle, ed aspettare la Provvidenza. La natura ci dà questo: buona parte del viver nostro ce lo portan via gli ufficj comuni dell’amicizia: ragion vuole che si ami la virtù, si tengano in pregio le onorate imprese; si abbia gratitudine a chi ci fa del bene; ed alle volte ci scomodiamo pur noi, in onore ed in servizio di chi si ama ed il vale. Ora, dove un popolo si abbatte in qualche gran bacalare, che abbia speso tutto il senno per mantenerlo sicuro, tutta la prodezza per difenderlo, tutta la diligenza per governarlo; e quel popolo si acconci d’allora in là ad obbedirgli, e ad innalzarlo tanto e quanto sopra il suo capo, io non saprei se questo fosse atto da gente di senno (tanto più ch’e’ si leverebbe di dove fa bene, per elevarlo dove può far del male), ma pure passi: è naturale il voler bene a chi ce ne fa, e il non temere da lui verun male.

Ma Dio benedetto! che faccenda è ella questa? Come s’ha a chiamare, sventura, vizio, o meglio vizio sventurato, il vedere infiniti popoli, non ubbidire, ma servire; non esser retti, ma tiranneggiati, che nè le lor possessioni, nè i figliuoli, nè i genitori, nè la vita stessa è loro; sopportare le rapine, le lussurie, le crudeltà, non mica di un’armata o d’un esercito barbaro, contro cui bisognerebbe metter a sbaraglio il sangue e la vita,