[St. 43-46] |
libro ii. canto x |
177 |
Ranaldo se avampò nel viso de ira,
E disse: Testimonio il ciel mi sia,
Che contra al mio voler costui mi tira
A darli morte sol per sua folìa.
Così parlando di pietà sospira,
Tanto lo stringe amore e cortesia;
Benchè dritta ragione e sua diffesa
Lo riscaldasse alla mortal impresa.
Trasse Fusberta e cominciò la zuffa,
Com’quel che crede che lui sia Dudone.1
Or s’io vi conto come se ribuffa
L’un colla spata e l’altro col bastone,
E tutti e colpi di quella baruffa,
Che ben durò cinque ore alla tenzone,
A ricontarvi tutto io staria tanto,
Che avria finito questo e un altro canto.
Ma per conclusïon vi dico in breve:
Benchè il gigante sia de ardire acceso,
E l’abbi quel baston cotanto greve,2
Che un altro non fu mai de cotal peso,
Pure alla fine, come un om di neve,
Serebbe da Ranaldo morto o preso,
Se per incanto o per negromanzia
Non ritrovasse al suo scampo altra via.
Perchè in cento maniere Balisardo
Se tramutava per incantamento;
Fiesse pantera con terribil guardo,
Et altre bestie assai di gran spavento.
Tramutosse in ïena, in camelpardo,
E in tigro, ch’è sì fiero e sì depento,
E fie’ battaglia in forma de griffone,
De cocodrillo e in mille altre fazone.
- ↑ Ml. Come; P. Con... ch’egli.
- ↑ T. e Ml. Et habbi; P. Ed abbia.