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guardia nazionale, e abbandonò gli agi e le più tenere affezioni per consacrare la propria vita alla rigenerazione d’Italia. Nel Veneto giunsegli partecipazione di sua elezione alla Camera pontificia come deputalo di Fermo, ma egli, costante nel suo principio, rifiutò, allegando che prima di meritarsi la fiducia della nazione, ogni italiano avea debito di combattere in armi lo straniero, essendo questo primo e sacro obbligo d’ogni cittadino.

Sostenne la campagna del Veneto, e si distinse alla difesa di Venezia, ove ebbe grado di colonnello, finché per la fuga del Papa da Roma, le Provincie dell’Italia centrale essendo minacciale da tulle le potenze, Roma vide di necessità richiamare dal Veneto le sue milizie.

Le Provincie delle Romagne erano state abbandonate, l’ordine pubblico seriamente minacciato da un partito che, confidando nel costituzionalismo papale, sperava restaurarne l’autorità, perduta verso le popolazioni specialmente dopo l’Enciclica del 29 aprile in cui il Papa malediva la guerra italiana, e i partiti estremi e i tristi pur s’agitavano. La voce pubblica designava Berti Pichat come uomo unico capace di reggere la somma delle cose, tanto per le sue alte cognizioni amministrative, che per la sua energia e specchiato carattere. Infatti fu da Roma nominato Preside e comandante militare delle quattro legazioni. In breve riordinò l’amministrazione pubblica, rannodò tutti gli spiriti, e costituì un vero governo modello come non aveasi giammai avuto il simigliatile. Sicurezza, ordine, tranquillità, accordo perfetto, questi furono i risultamenti dell’opera di questa insigne capacità. Non legato a veruna consorteria, non guidato da ambizione di titoli e onori, niuna influenza poteva esercitarsi sopra un animo giusto e severo, energico e caldo amatore d’Italia.

Nominato con 26 mila voti rappresentante del popolo all’Assemblea romana, restò al suo posto in Bologna per far argine agl’intrighi di alcuni che cospiravano con Gaeta, e opporsi alle minacce degli svizzeri che voleano partire per colà. Con somma