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Quando si sparse la notizia di questo fatto moltissimi furono gl’increduli; ma finalmente bisognò pure aggiustar fede all’avvenimento una volta compiuto.

Allora si trovò che il Romano aveva agito in modo indegnissimo; si disse ch’egli era un traditore, e si gridò l’anatema sopra di esso.

Ci si permetterà di non giudicare a questo modo le cose e gli uomini.

Noi compatiamo il Romano di non aver potuto sopportare più a lungo l’esilio; non tutti gli uomini possono essere eroi. Noi gli sappiamo apertamente buon grado dell’avere accettato il portafogli dell’interno sportogli dal Borbone, giacchè poteva darsi cadesse in mani che non sapessero o volessero farne l’ottimo uso ch’egli ne fece.

Per noi sta che il Romano entrando in quel ministero, sapeva che gli sarebbe stato concesso di rendere segnalati servigi alla patria italiana, servigi che avrebbero fatto dimenticare la debolezza d’animo da esso mostrata quando consentì ad implorare Ferdinando II.

Noi gli sappiamo poi il miglior grado del mondo di avere francamente e senza la menoma esitazione, fatti i ponti d’oro a Garibaldi, non dovendosi avere grandi scrupoli ad ingannare il discendente di coloro che avevano tanto ingannato, molto più quando s’impiegava quello stratagemma nei più vitali interessi della patria italiana.

È facile scagliare la pietra tanto contro l’uomo che piega nella sventura, ed è anche più facile biasimare una determinazione della natura di quella che il Romano ha avuto il coraggio civile di adottare; ma quando tale determinazione serve a cementare il grande edificio della patria italiana chi di buona fede saprebbe o potrebbe condannarla?