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Non è però baldezza il dir, che toglie
Quest’una il grido e l’onoranza a quante
Di Teti e d’Oceano entran le soglie.
Ella cammina a ciascheduna innante, 2
La Fenicia appo lei Corsica incede,
Su le cui poste Eubea move le piante; 3
Quarta è Sardigna, e da sezzo procede
Quella a cui riparossi il dì che a terra
Dalle spume del mar Venere diede.
Queste un cerchio di torri affida e serra,
Te Febo, o Delo; e quai più salde mura?
Lo Strimonio Aquilon le pietre atterra,
Ma non atterra un Dio: tu di sventura,
Isoletta gentil, non hai sospetto,
Nell’usbergo di tal vivi sicura;
E poichè l’are tue drappello eletto
Sempre fa risuonar di canti amici, 4
Quale a scoltar più ti sarà diletto?
Canterò forse come le pendici
Col temprato tridente dai Telchini 5
Nettuno sollevò dalle radici?
E riversando in mar giù nei marini
Fondi legò le poderose some
Tutti i terrestri ad obliar confini?
O più dolce ti fia memorar come
Correvi in libertà l’equoree strade,
Quand’era il nome tuo d’Asteria il nome?
Che fuggendo del ciel l’alte contrade,
E del Saturnio Dio l’ardente zelo
In mar cadesti come un astro cade.
E mentre che li due occhi del cielo
Latona a partorire in te non sorse
Asteria ti chiamarono e no Delo.
Spesso il nocchier, che il mar d’Efira corse 6
Dando le vele al vento di Trezene
Nella marina di Saron ti scorse,