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La madre di Tiresia, che natia
Era di Tebe, a Pallade sì cara
Visse, che mai da se non la partia.
Se veder di Curalio il bosco, o l’ara
Di Coronéa e d’Aliarto vole,
Colà dove il Teban vendemmia ed ara,
O la piaggia di Tespi, con lei suole
Di Tiresia venir la madre altera,
Nè feste la diletta nè carole,
Se Cariclo non è capo di schiera,
Ma di lacrime amare un largo fonte
Da sì dolce amistà per nascer’era.
Nell’ora che più al Sole arde la fronte
Ponevano le membra in Ippocrene,
Alti silenzi possedeano il monte.
Tiresia che volgea per quelle arene
Senza più compagnia che i veltri sui,
Per gran sete appressò le fresche vene,
E cose, che veder non lice a nui,
Lasso! mirò nei desiati fiumi,
Perchè irata la Dea si volse a lui:
O Everide, quai nemici Numi
Han le tue caccie a questa via converse,
Da cui non uscirai con salvi i lumi?
Fur queste voci un vel, che gli coverse
Ambe le luci; ed ammutia, che a un tratto
La lena, il senno e la favella perse:
E la ninfa gridò: Dea che hai fatto?
L’amistà dunque delle Dive è questa?
L’uno e l’altr’occhio al figlio mio m’hai ratto.
Hai veduta Minerva senza vesta,
Ma non vedrai più il Sol; montagna addio
D’Elicona, per sempre addio foresta.
Di picciola jattura inegual fio!
Per qualche damma e qualche capriolo
Gli occhi pigli amendue del figlio mio;