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Gli occhi al miraglio suo Venere porse,
E una fiata ed altra al crin le mani,
Cento stadi Minerva e più trascorse;
Quai sull’Eurota i due astri Spartani,
Poscia diffusa di liquor d’ulivi
Fiammeggiò come rose e melograni
Umor dell’arbor sua recate quivi
A Castore diletto, e un pettin d’oro
Da solcarle del crin gli erranti rivi.
Vieni vieni Minerva: il casto coro
Già delle amate verginelle incede,
Progenie del magnanimo Acestoro;
Ecco lo scudo, o Dea, di Diomede,
Antico rito, di cui fu radice
Il fuggitivo sacerdote Eumede,
Che addetto a morte vêr la Crea pendice
Mosse, e locò l’imago tua sui nudi
Fianchi del monte che da te si dice.
Vien Dea, che in elmo d’or la fronte chiudi,
E torri adegui alla suggetta arena,
E fragor di cavalli ami e di scudi.
Non toccate del fiume oggi la piena
Ancelle, oggi Amimon vostr’urne aggreve,
Oggi di Fisadéa ite alla vena.
Del fiume no, dei fonti oggi Argo beve,
Pieni d’oro e di fior vengon dai colli
I lavacri che a Palla Inaco deve.
Allorchè nelle chiare acque s’immolli
La Dea, Pelasgo, dal guardar rimanti,
Che dir non gioverà: veder non volli.
Gli occhi che viste avran scinte dei manti
Le membra della Dea, che in rocche annida,
Quest’Argo più non mireranno avanti.
Mentre che Palla all’Inaco si guida,
Vergini, canterò storia non mia,
Ma quale per altrui lingua si grida.