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l'ideale 205

Alberto era un gran timido, e nessuno se n’era mai accorto; il Rocchi meno di tutti, forse perchè lui, di carattere vivace, non poteva affatto capire che si potesse essere timidi fino a quell’eccesso.

Aveva notato, è vero, da qualche tempo in qua che la corsa di Alberto a l’inseguimento dell’Ideale non era più, come prima, una specie di sport, con lunghe intermittenze di riposo e di ristoro; ma continua, celere e, in certi giorni, quasi affannosa. E questo gli sembrava buon segno, da un lato. Dall’altro però gli faceva sospettare che Alberto gli nascondesse qualcosa, un segreto doloroso, del quale avrebbe voluto sbarazzarsi, e non ne trovava la via.

Di tratto in tratto, con quella sua sarcastica imperturbabilità, il Rocchi lo interrogava:

— Quanti chilometri abbiamo filato in questi giorni verso l’Ideale? Parecchi, credo: mi sembri un po’ stanco.

Rocchi fu stupìto, una mattina, di sentirsi rispondere:

— Non ne posso più! O sono un imbecille, o sono un pazzo, o sono in via di diventare qualcosa di peggio dell’uno e dell’altro!