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cazione e la vita civile comprimono o uccidono in germe. E nei soliti mercoledì, che conservavano sempre la loro voga e le servivano a mascherare una sconfitta che sarebbe stata un trionfo pei suoi nemici, se incontrava lo sguardo del Follini, così sereno, così pieno di compatimento, abbassava gli occhi mortificata. Il disgusto del suo stato la rivoltava, le dava la nausea.

XI.

Oramai ella viveva alla giornata, aspettandosi da un momento all’altro una catastrofe. Quale? Non avrebbe saputo dirlo; ma l’ansia, la prostrazione, benchè si sforzasse di nasconderle, le si leggevano in viso.

Si abbandonava. Ogni giorno che passava le pareva tanto di guadagnato. Andrea mostravasi buono, affettuoso? Mostravasi freddo, quasi indifferente? Era lo stesso per lei.

— Mi pare che tu non stia bene — le disse una sera la signora Villa.

— No, — rispose Giacinta. — Che ti passa pel capo?

Rideva, scoteva la testa, come se Ernesta Villa avesse detto qualcosa d’assurdo. Ma colei la guardava un po’ incredula, un po’ intrigata: in quel riso, in quella vivacità di risposta c’era un che di così sforzato, di così eccessivo da far pena.

Giacinta se n’accorse.

— E tu? Come ti trovi ora? — le domandò, per deviare il discorso.