Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/206

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Gisippo. Oimè !

Demetrio. Satiro, che vuol dir questo?

Gisippo. Oimè! Oimè!

Satiro. Voi non dovete saper dunque che la Giuletta è morta?

Demetrio. Morta? Giuletta? Oh che di’tu, Satiro!

Gisippo. Quando io era in grazia a lei, era nimico dei suoi: or che i suoi mi vogliono, non ho piú lei. Viva, mi si negava: morta, mi si concede.

Demetrio. Questa è veramente una gran perdita, e avete mille ragioni a dolervene; ma darsi in preda al dolore per cosa che è naturale e necessaria e senza rimedio, non si conviene né alla prudenza né alla costanza d’un gentiluomo vostro pari.

Gisippo. E questo è il mio dolore, messer Demetrio, ch’ella non è morta quando e come muoiono l’altre. È stata uccisa fanciulla innocente, per man di cani, di morte crudelissima, in cospetto mio; e peggio, che io ne sono stato cagione. Ahi, Giuletta sventurata!

Demetrio. Io mi sento scoppiare il cuore. Oh, oh, fiero accidente è stato questo !

Satiro. Di grazia, non ne ragionate piú con lui, che si morrebbe d’angoscia. Lasciamolo un poco da parte.

Demetrio. O Satiro, come è stata questa disgrazia?

Satiro. Vi dirò brevemente. Rapita la Giuletta, navigavamo alla volta di Corfú. Giunti a vista del Zante, fummo assaliti e presi da cinque fuste di turchi. Messer Gisippo, per la conoscenza che aveva nell’isola, sperando di far ricatto, lasciata la Giuletta, la mattina avanti giorno ottenne di farsi mettere in terra solamente con me. Approdati che fummo, trovammo che a punto vi sopraggiungevano di Cefalonia le galere de’ veneziani. II capitan era suo caro amico. Si riconobbero; e, tra loro risoluti di poter conquistare le fuste, ci mettemmo a seguitarle, ancorché si fossero allargate. E giá ci trovavamo lor presso, quando veggiamo che, per fermarci, mettono Giuletta legata in poppa, minacciando di ucciderla; e per questo incalzando noi maggiormente, in un tratto, a’ nostri occhi veggenti, le tagliano il capo e gittano il corpo in mare.