Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/207

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Demetrio. Oh cani traditori!

Satiro. Gisippo, per ripescare il corpo, fe’ ritenere le galee; e le fuste intanto, pigliando vantaggio, si salvarono.

Demetrio. Oh sfortunata giovinetta! Ma che donna è quella di chi li parlavi dianzi, ch’egli dice di non la volere?

Satiro. Messer Demetrio, questa è una ventura che Dio li manda in ricompensa di tanta disgrazia. Una vedova, gentildonna ricchissima, la piú gentil creatura di Roma, come suole avvenire che i sangui s’affrontano, non l’ha prima veduto che s’è innamorata di lui e lo vuole per marito e per signore di tutta la sua robba. E che robba! che donna arebbe egli! Un contado, si puole dire, e una dea. Voi sapete lo stato nostro: se non vogliamo andare sempre raminghi, è necessario che lo faccia; io non gli ne posso metter in capo; poiché voi ci siete, vedete di persuadergline.

Demetrio. Orsú, non è tempo ora da toccar questo tasto. Veggiamo di tórlo da questo affanno; e, quando sará meglio disposto, gli ne parlaremo.

Satiro. Intanto leviamoci di qui, ch’io veggo un ch’esce dalla vedova. Dubito che non mandi a sollecitarmi di questo parentado, ed io la voglio trattenere finché non facciamo meglior risoluzione.

Demetrio. Messer Gisippo, andiancene a spasso, ch’io voglio pur vedere Roma.

SCENA IV

Pilucca, Marabeo, Nuta.

Pilucca. Questa mia padrona mi ha stracco con tante minuzie ch’ella mi domanda. Giá quattro volte mi ha fatto richiamare di cantina, e piú di mille ha voluto ch’io le replichi che il padrone è morto. Debbe forse aver paura che non resusciti; ma io non mi voglio morir intanto. E mentre che ragiona con Barbagrigia, sará bene che me ne vada a bever un tratto