Pagina:Caterina da Siena - Epistole, 2.djvu/146

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146 che non sarà veruna amaritudine che non diventi dolce, nè sì gran peso che non diventi leggiero. Ho inteso la molta fatica e tribulazioni, le quali voi avete, cioè reputiamo noi che siano tabulazioni; ina se noi apriremo l’occhio del cognoscimento di noi medesimi e della bontà di Dio, ci parranno grandi ^consolazioni: del cognoscimento di noi dico, cioè che noi vediamo noi non essere, e come siamo sempre stati operatori d’ogni peccato ed iniquità. Perocché quando l’anima raguarda sè avere offeso il suo Creatore, sommo ed eterno bene, cresce in uno odio di sè medesima, intantochè ne vuole fare vendetta e giustizia, ed è contenta %di sostenere ogni pena e fatica per satisfare all’offesa che ha fatta al suo Creatore; onde grandissima grazia reputa che Dio gli abbia fatta, che egli il punisca in questa vita, e non abbi riservato a punire nell’altra, dove sono pene infinite. 0 carissimo fratello in Cristo Jesù, se noi considerassimo la grande utilità a sostenere pene in questa vita, mentre che siamo peregrini, che sempre corriamo verso il termine della morte, non le fuggiremo.

Egli ora ne segue molti beni dallo stare tribulato; 1’ uno si è che si conforma con Cristo crocifisso nelle pene ed obbrobrj suoi. Orchè può avere maggiore tesoro 1* anima che essere vestita degli obbrobrj e pene sue? L’altro si è, che egli punisce l’anima sua, scontando i peccati e i difetti suoi; fa crescere la grazia, e porta il tesoro nella vita durabile per le sue fatiche che Dio li dà, volendola remunerare delle pene e fatiche sue.

II. Non temete, carissimo fratello mio, perchè vedeste o vediate, che il dimonio per impedire la pace

la pazienzia del cuore, e dell’anima vostra, mandi ted