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[2217] Sfarfalloni 795


di Trieste. Il Somma tolse il soggetto del melodramma dal lavoro dello Scribe Gustave III (musicato da Auber): ma la censura borbonica non ne permise la rappresentazione, sicchè l’opera non fu rappresentata che nel carnevale dell’anno successivo al Teatro Apollo di Roma col titolo Un ballo in maschera, e con molti tagli e rimaneggiamenti della Censura. Fu detto (e anch’io lo dissi con altri nelle precedenti edizioni di quest’opera) che a cagione di questi rimaneggiamenti, nonchè degli altri, in numero pure grande, che il maestro Verdi, più valente compositore che poeta, volle introdurvi (e si aggiungeva che i due versi citati di sopra erano del numero!) il Somma non permise che le prime edizioni del libretto uscissero col suo nome; e che egli stesso avendo cominciato per il Verdi un altro libretto, il Re Lear, non volle continuarlo per non sottomettersi alle esigenze del maestro. Di tutte queste leggende ha fatto giustizia il compianto avv. Alessandro Pascolato nel volumetto: «»Re Lear» e «Ballo in maschera», lettere di Giuseppe Verdi ad Antonio Somma (Città di Castello, S. Tapi, 1913). Nessuna nube turbò mai la relazione amichevole del Maestro col Somma: i mutamenti necessari per ottenere a Roma il permesso della rappresentazione furono eseguiti di buon grado dallo stesso Somma ed in tal modo che il libretto, a giudizio del Verdi, aveva poco perduto, anzi in qualche punto aveva guadagnato (lettera degli 11 settembre 1858). Il Re Lear fu finito, ma non musicato: e il Pascolato crede che il Somma non volesse far figurare il suo nome nel libretto del Ballo in maschera perchè il soggetto non era originale. Quanto ai due versi famosi non c’è ragione di attribuirne la paternità al Verdi: questi scrive al Somma il 20 novembre 1857: «Ho ricevuto il second’atto.... Il terzetto dopo il duetto non è riuscito così bene.... In tutto il dialogo tra Gustavo (ossia Riccardo), Amelia, Ankarstroem (ossia Renato) c’è qualche cosa di duro, di stentato e anche d’oscuro», ma nessuna osservazione è fatta per quei due versi: dei quali il Pascolato (in n. a pag. 20) dice che «se ne mena scalpore più del bisogno» e tenta giustificarli, ma su questo punto non potremmo trovarci d’accordo. In ogni modo stenteremo sempre a credere che meriti il nome di poeta l’autore di un libretto in cui non soltanto l’orma dei passi spietati, non soltanto le altre gemme qui spigolate da noi (vedi num. 2173). ma tutto il testo da capo a fondo è di una volgarità,