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studi giovanili 67

Fino ai diciotto anni Giacomo era stato interamente sotto l’influenza paterna: le sue idee in religione, in filosofia, in politica, erano state le idee del padre suo; la sua condotta nella vita quella che la famiglia aveva voluta. Lo avevano avviato al sacerdozio, ed egli aveva lasciato fare. Purché gli concedessero libertà di studiare a modo suo, in tutto il resto egli fino allora era stato disposto a fare a modo degli altri. Le sue idee filosofiche e religiose di quel tempo (la filosofia era naturalmente subordinata alla religione) furono da lui esposte nel Saggio su gli errori popolari; le idee politiche nella Orazione per la liberazione del Piceno, scritta nello stesso anno 1815 in cui aveva composto il Saggio.

E per due anni ancora non diede segno nei suoi scritti della trasformazione che andava operandosi in lui; benché lampi forieri di essa si possano oggi scorgere nello stesso Saggio. «Credere una cosa, scrive egli nel primo capitolo, perchè si è udito dirla, e perchè non si é avuta cura di esaminarla, fa torto all’intelletto dell’uomo.»1 Questo, che ora censurava, e niente altro che questo, aveva egli fatto fino allora intorno alla religione. Ma quel pensiero critico, una volta entratogli in testa, doveva fare il suo cammino; e lo fece spietatamente. Intanto però egli terminava il suo libro con questo inno alla religione.

«Religione amabilissima! è pur dolce poter terminare col parlar di te, ciò che si è cominciato per far qualche bene a quelli che tu benefichi tutto giorno; è pur dolce poter concludere con animo fermo e sicuro, che non è filosofo chi non ti segue e non ti rispetta, e non v’ha chi ti segua e rispetti che non sia filosofo. Oso pur dire che non ha cuore; che non sente i dolci fremiti di un amor tenero, che soddisfa e rapisce; che non conosce l’estasi in cui getta una

  1. Giacomo Leopardi, Scritti letterari citati, vol. I, pag. 83.